Gaetano Chierici, il primato della quotidianità - di Elisabetta Farioli
Due autoritratti di Gaetano Chierici conservati nelle collezioni dei Musei Civici di Reggio Emilia ci introducono al racconto di questo straordinario pittore, punto di contatto tra la storia della nostra pittura dell’Ottocento e l’evoluzione delle poetiche artistiche non solo nazionali di quel secolo (l’altro grande protagonista è naturalmente Antonio Fontanesi).
Il primo Autoritratto è databile attorno al 1865 e ci mostra il nostro giovane artista con la sua tavolozza, già consapevole del suo destino di artista. Dopo aver frequentato la Scuola di Belle Arti di Reggio dal 1853 era infatti passato nel 1858 all’Accademia di Bologna e infine nel 1859 a Firenze grazie a una borsa di studio dell'istituto Ferrari-Bonini. A Firenze l’artista rimane fino al 1875, data del suo ritorno a Reggio Emilia. Ha già avuto modo di raccogliere i primi successi , differenziandosi dal cotè macchiaiolo orientato verso più sofisticate operazioni di sintesi e riflessione poetica, si dedica alla rappresentazioni di interni di conventi, abbozza semplici scene famigliari, e intanto perfeziona il suo mestiere pittorico, avviato verso una sempre più lenticolare rappresentazione della realtà. Così racconta, a proposito di questa sua prima fase pittorica: “ A Firenze nei primi passi della mia carriera che ebbero buon successo forse non altro che per l’ingenuità dei miei lavori, che eseguivo nella quiete affettuosa delle pareti domestiche, lontano da ogni preconcetto scolastico o di stile, e colla sola scorta del vero, mi chiamavano il quadraio volendo con ciò dire che la mia pittura era esclusivamente lavoro materiale di pennello o, come dicevano, di groppa.” Tornato nella città natale egli ha modo di approfondire quella tematica della pittura di interni che gli era particolarmente cara e che trova nella raffigurazione della vita nelle nostre campagne possibilità infinite di descrizione e racconto. Descrizione nella resa minuziosa degli intonaci corrosi da macchie e umidità, delle pavimentazione sconnesse , dei semplici mobili indagati nelle nervature del legno e nella rozzezza degli intagli, delle lumeggiature che animano stoviglie e vetri…Racconto nelle scenette famigliari, per lo più bambini colti nei momenti di gioco, con l’immancabile presenza di animali che animano la scena e ne diventano anche protagonisti. Oggi queste opere bene si prestano anche a una lettura di taglio antropologico ma all’epoca della loro creazione il rispecchiamento doveva essere immediato, come pure l’invincibile nostalgia della vita rurale in un’Europa che all’epoca vedeva il trionfo delle grandi città. Perché bisogna subito dire che il successo dell’artista non si limita al riconoscimento nazionale, viene infatti invitato alle più prestigiose mostre europee ( nel 1873 l’ Esposizione universale di Vienna, nel 1881 la Royal Academy di Londra, nel 1888 , 1889, 1900 le Esposizioni internazionali di Monaco, nel 1891 l’ Esposizione internazionale di Berlino). Il suo successo (l’artista è ancora oggi spesso presente nel vendite di case d’asta) è anche testimoniato dalla presenza di sue opere in diversi musei e collezioni nazionali e internazionali (Firenze, Galleria d'arte moderna; Genova-Nervi, Galleria d'arte moderna; Milano, Pinacoteca di Brera; Museo Borgogna Vercelli, Museo Stibbert Firenze, Filadelfia, Pennsylvania Academy of the Fine Arts; Prato, Galleria d'arte moderna, Utica, Proctor Institute, Museum of Arts etc etc). Quello che veniva ( e viene) apprezzato, oltre alla maestria nella resa del vero (da sempre più immediato riconoscimento delle potenzialità della pittura) è il registro
affettivo delle sue opere, una quieta e sorridente umanità restituita con evidenti intenti pedagogici (il tema dell’accudire i figli, del rapporto con gli anziani) che riesce però a non cadere nel moralismo e nella facile retorica. Il tutto sostenuto da una buona formazione storico-artistica, come giustamente rilevato da Roberto Tassi nel catalogo della mostra del 1986 (su questo tema si veda anche in questo sito l’intervento di Antonio Brighi) che individuava riferimenti oltre che alla cultura macchiaiola alla grande tradizione descrittiva dei fiamminghi giungendo a stimolanti riflessioni che capovolgevano la lettura dei suoi teatrini domestici in una prospettiva di iperrealtà. Così ce li racconta invece il pittore stesso: “ Nelle mie pitture non vi è l’ispirazione di alti concetti, non vi sono le figure scialbe, rigide e malinconiche del simbolismo , tantomeno vi è la bella bravura dell’artista pennellatore e macchiaiolo; dica pur anche che non vi sono sempre quelle giuste tonalità delle quali, sprezzando tutto il resto, va in affannosa ricerca il pittore improntista; ma dica altresì che se nelle mie pitture non vi è tutta questa grazia di Dio, vi è però , senza mendicar nulla da altre scuole o da altri artisti, la scrupolosa coscienza dello studio più attento ed appassionato del vero, mai disgiunto dall’affetto profondo della famiglia che le ispira.
E’ giunto ora il momento di introdurre il secondo Autoritratto del pittore, datato attorno al 1880, quindi all’apice della sua carriera. La sicura e baldanzosa immagine di quest’uomo, che si rivolge all’osservatore carico di vitalità e dinamismo, sembra contraddire la visione intimista e concentrata su un mondo di “piccole cose” che abbiamo sin qui tratteggiato. Dobbiamo a questo punto dar conto delle diverse forme di impegno che hanno caratterizzato la vita di Gaetano Chierici, a partire dal ruolo nella Scuola di Belle Arti (che non a caso gli è stata dedicata ) di cui diventa Direttore nel dicembre del 1882, la sua militanza politica ( Consigliere comunale s Reggio Emilia dal 1889 e poi primo Sindaco socialista della città dal 1900 al 1902), avventure anche un po’ azzardate come la partecipazione nel 1889 al progetto di una “Nuova Reggio” in Eritrea…Un personaggio a tutto tondo, diremmo oggi, che senz’altro in città aveva assunto un ruolo importante e riconosciuto che non gli ha fatto mai perdere di vista il prioritario rapporto con la pittura. E’ stato un artista prolifico, impegnato in repliche e varianti dei medesimi soggetti che gli consentivano senz’altro guadagni anche significativi , ma l’amore per la pittura è stato sempre per lui sincero e appassionato. Scrive al proposito: “ A questa mia arte di pittore debbo la mia felicità, perché il sorriso dei miei modellini si è sempre trasfuso nell’anima mia scacciandone i tristi pensieri e i lugubri dolori della vita. Se, nonostante i miei sessant’anni, sono ancora vegeto e robusto, se ho potuto superare le peripezie e le acerbe amarezze che purtroppo non mi furono risparmiate nel corso della mia esistenza, lo debbo a quest’arte che si svolge nel sereno ambiente del mio studio, ove liete echeggiano per molte ore del giorno le voci e le risate dei protagonisti dei miei quadri. Ecco perché la mia arte è stata sempre e lo è ancora rinchiusa nell’umile campo della famiglia.”